È conosciuto come 'Il medico dei bambini' per essersi impegnato per tutta la vita a salvare le loro vite ma anche a migliorare le loro condizioni. "Credo che i bambini debbano sorridere il più possibile": è la frase manifesto del dottor Pietro Abbruzzese, ex primario di Cardiochirurgia infantile dell'ospedale Regina Margherita di Torino. Lì ha avviato numerose iniziative, sempre per i suoi piccoli pazienti: è stato uno dei fautori della Fondazione Forma e del cambiamento del Regina Margherita a dimensione di bambino. Ha fondato un ospedale infantile in Somalia e, ora che è in pensione, siede nel Consiglio Comunale di Torino, dove la maggior parte dei suoi interventi riguardano i bambini e le famiglie.
Intervistato dal "Podcast a domicilio" di DixTV, Abbruzzese ha raccontato la sua esperienza e i suoi trascorsi personali, come la perdita del figlio adottivo che per lui è stato una fonte di forza e di insegnamento. Da poco, una sua ex paziente - Maria Cristina - si è laureata in medicina con 110 e lode e dignità di stampa e ha dedicato la tesi al dottore che l'ha salvata con un'operazione al cuore quando aveva solo 5 mesi.
"La cosa mi ha piacevolmente sorpreso, non me lo aspettavo perché non era una persona che vedevo spesso: ci siamo incontrati solo una volta alla riunione dei Babbi Natale, nella vita ho operato più di 5000 bambini qui a Torino".
Come ha deciso di fare il cardiochirurgo infantile?
"Avevo deciso di fare il medico anche un po' in contrasto con mio padre, che era architetto urbanista. Ero un medico non 'da pastiglie' ma da 'o operiamo o muori' e fino alla laurea ho pensato di fare il chirurgo generale. Poi in uno di quei piccoli televisori nei bar vedo uno che stava fischiettando mentre stava operando un bambino piccolo al cuore e ho deciso. Il giorno dopo gli ho telefonato ed è diventato uno dei miei grandi maestri, il Professor Parenzan di Bergamo".
Si riesce a contenere le proprie emozioni operando un bambino piccolo?
"In questi casi o ci riesci o fai un altro mestiere. Quello che succede in sala operatoria è che scattano una serie di rituali e meccanismi psicologici, quasi un'autoipnosi per cui ti stacchi dal paziente e diventi un meccanico. Alla fine succede la cosa opposta e scarichi tutta l'adrenalina che avevi, ma durante l'operazione non puoi essere coinvolto dal bambino sennò operi male".
Lei è il chirurgo dei bambini non solo in Italia ma anche all'estero, ha fondato un ospedale in Somalia. Com'è andata?
"Ho lavorato molto con Emergency e Gino Strada che era un mio amico carissimo. Ha fatto questo ospedale di cardiochirurgia in Sudan e sono stato lì molte volte. Poi qui a Torino mi dicono di chiedere a Gino Strada di fare un ospedale in Somalia ma lui disse di no perché al massimo avrebbe voluto farci un centro di guerra, non un ospedale di pace. Allora decisi di farlo io, con un gruppo qui a Torino, all'inizio con due lire poi ci diede una mano concreta Specchio dei Tempi della Stampa".
Che situazione c'era in Somalia?
"Un paese povero e neanche troppo bello, la Somalia è desertica. Però questo medico che me l'ha chiesto era stato anche Ministro e mi ha coinvolto subito dicendo che non si poteva fare a Mogadiscio perché una zona troppo pericolosa e di farlo in una zona diversa, così da coinvolgere gli altri somali a cercare la pace. Ed era una cosa che mi aveva colpito all'epoca: l'inizio di questo percorso molto bello che ha curato più di 100 mila bambini. Siamo stati fortunati perché avendo coinvolto il Ministero della sanità della Somalia, anche dopo che ci siamo allontanati loro vanno avanti da soli e continuano ad avere gli stessi standard che abbiamo sempre avuto noi".
Un ruolo importante ha avuto anche suo figlio, a cui ha dedicato un libro e che rappresenta un'esperienza di grande tristezza ma anche di grande forza.
"Parlare di mio figlio è una cosa bella per me: è lui che ha insegnato tante cose, non il contrario. Carlo era un bambino che aveva una cardiopatia molto grave e che era stato abbandonato dalla famiglia. Sono stato chiamato come cardiochirurgo a vederlo e dopo un mese che non l'aveva adottato nessuno l'abbiamo adottato, nonostante mia moglie fosse incinta. È stata lei più determinata: io dissi che probabilmente sarebbe morto e lei che se un bambino deve morire è meglio che muoia nelle braccia della madre. Poi Carlo ha vissuto per 20 anni, sarebbe dovuto morire alla nascita".
Poi è arrivata la politica, le hanno chiesto di candidarsi con Torino Bellissima, è stato eletto e ora è consigliere comunale nel Comune di Torino. Come vive questo incarico e quale è stato il motivo?
"Per lo stesso motivo: per occuparmi di bambini, famiglie, natalità, di persone che soffrono. La mia politica è più che altro sociale. I miei argomenti sono talmente trasversali che quasi sempre sono tutti d'accordo: sono richieste che sono a favore dei bambini e delle famiglie".
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