In realtà, almeno credo, la masterclass organizzata da Canone Occidentale per presentare la sua linea di Vermouth doveva essere strettamente riservata a professionisti del settore.
In ogni caso, sono riuscito a “imbucarmi” e devo confessare che, abituato a incontri stampa spesso prolissi e connotati da finalità in ultimo promozionali, mi sono trovato di fronte a una piacevole sorpresa: un brillante ed esaustivo racconto della storia del Vermouth narrato da Fulvio Piccinino, che su questo vino aromatizzato torinese ha pure scritto un documentato volumetto; e una sintetica ed efficace messa a fuoco degli intenti e della sperimentazione portata avanti da Canone Occidentale effettuata da Michele Marzella, uno dei più capaci ed estrosi bartender torinesi.
L’intersecarsi della storia del Vermouth con la storia di Torino
Un elemento chiave del racconto di Piccinino è lo stretto intersecarsi della storia ultra bicentenaria del Vermouth con quella della Torino ormai divenuta rigorosamente sabauda. È infatti il 1786 l’anno in cui si ritiene che Antonio Benedetto Carpano abbia creato, in una prospettiva industriale e all’interno di una liquoreria collocata sotto i portici di piazza Castello, quello che sarebbe diventato il Vermouth di Torino. E il vino aromatizzato in questione avrebbe riscosso un tale successo, sia nel centro subalpino che a livello nazionale ed estero, da determinare la nascita di numerose aziende che avrebbero fatto la storia del Vermouth.
Non senza rendere Torino una città conosciuta in tutto il mondo per le sue “vermoutherie” e per l’“Ora del Vermouth”: un vero e proprio rituale che, a cavallo tra Ottocento e Novecento, tra le sei e le sette di sera sanciva la fine della giornata lavorativa coinvolgendo tutte le classi sociali.
Dalla crisi del Vermouth al suo superamento
Nonostante questa tradizione, ricca e diversificata, la storia d’amore tra Torino e il Vermouth venne gradualmente affievolendosi. E questo al punto da indurre coloro che di questo singolare vino hanno seguito le orme lasciate nel tempo a parlare addirittura, a partire dal dopoguerra, di un’autentica “crisi del Vermouth”.
Una crisi che, se per un verso si tradusse nella chiusura di molte aziende incentrate su questo prodotto, solo dagli anni Ottanta in poi cominciò ad essere superata, tornando lentamente a vedere il Vermouth apprezzato sia liscio, sia come elemento chiave della miscelazione. Sarà in questo orizzonte che, nel 2019, nascerà il Consorzio del Vermouth di Torino, il cui disciplinare norma in modo ferreo la produzione di questo vino aromatizzato.
Ripensare il Vermouth all’epoca dell’AI
È sulla scorta di questa storia, per un verso facendone tesoro e per l’altro cercando di reinterpretarla, che – così ha spiegato Michele Marzella, che di fatto ne è stato l’artefice – si è mossa la creazione di “Canone Occidentale”: una costellazione di tre Vermouth superiori che ho avuto modo di degustare, accompagnate da quelle che Piccinino ha definito “tapas piemontesi” e non senza captare i pareri complessivamente positivi dei professionisti del settore che li provavano per la prima volta o ne facevano già uso nella preparazione dei loro drink.
E, se l’assaggio sia del rosso che del bianco ha fatto emergere due prodotti per colore e sapore capaci di richiamare con forza quella città della Mole di cui le etichette, ispirandosi al radical design torinese, fanno emergere l’inattesa vivacità legata a Porta Palazzo e al Quadrilatero romano, a stupirmi è stato soprattutto l’extra dry: un Vermouth che, nel valorizzare in modo del tutto originale la sua componente erbacea, rimanda – e non solo nella sua etichetta – al Parco del Valentino e al profluvio di aromi che sprigionano dall’orto botanico che in esso trova posto.