“Cosa significa oggi fare cinema nella nostra città? Direi che la domanda è più che altro cosa funziona e cosa no”.
Così il regista Davide Ferrario commenta la scena cinematografica piemontese a pochi giorni dall’inizio del 42° Torino Film Festival. “C’è stata una lunga strada della Film Commission, alcune cose funzionano altre meno. La cosa stupefacente è che qui ci sono tante istituzioni che si occupano di cinema, ma non siamo riusciti a costruire una vera scuola creativa di autori di cinema. Non è mai venuta fuori. Non c’è un’impronta torinese del cinema, è una cosa manca. È bellissimo vedere sfilare a Torino attori e registi famosi, ma sarebbe bello spiccasse anche qualche torinese, qualcuno che si occupa di cinema e che sia riconosciuto come tale”.
Che idea si è fatto di questa nuova edizione del Tff? In tanti sostengono che sia troppo ricca di vip e troppo poco di film.
“Se ne parlerà a cose finite. C’è una scelta precisa, ma oltre agli attori sarebbe interessante vedere sceneggiatori, registi, direttori di fotografia, avere un festival insomma che si occupa del cinema per come viene fatto, non solo per l’elemento visibile”.
Martedì 19 novembre al Cinema Agnelli, il regista sarà protagonista di un confronto con Giulio Base, seguito dalla proiezione della copia restaurata dal Museo Nazionale del Cinema di Dopo mezzanotte.
Dopo vent’anni, oggi come guarda a quel film?
“È un film fuori dal tempo, forse per questo ha avuto successo. È nato in una maniera super indipendente, è stato fatto con i soldi miei e della mia compagna, all’epoca non c’era neanche la Film Commission. Abbiamo pagato per girare dentro la Mole, ma era un atto d’amore di una persona che era arrivata da poco in questa città e se ne era innamorata. Ha una sua grazia oggettiva, è un piccolo cristallo molto equilibrato che ancora oggi ha una buona ricezione”.
La città di Torino è anche tra quelle toccate nel documentario su Italo Calvino, qual era il rapporto dello scrittore con la città che emerge dal doc?
“Lui dice due cose molto chiare. Si trasferisce da Sanremo perché trova in Torino una città seria dove si lavora e dove si respira l’aria del mondo e non di provincia. Tramite Einaudi dimostra che è il centro culturale d’Italia. Poi, dopo qualche tempo definisce la città triste e per questo si trasferisce a Roma, senza neanche pensarci. C’è un’attrazione forte e lenta che poi si scioglie con gli anni ’70 e ’80. Da lì per vent’anni fino alle Olimpiadi, Torino resta di fatto incompiuta. Calvino non ha potuto vedere cosa sarebbe diventata, ma sarebbe stato interessante capire cosa ne avrebbe pensato”.
Qual è il suo rapporto oggi con la città che ha tanto amato? Ha dei progetti in mente?
“Progetti ce ne sono tanti. È cambiato il mercato cinematografico. Un film come Dopo mezzanotte, non lo farei più. Non ci sono più i cinema e nessuna piattaforma lo prenderebbe. Torino non avendo una politica culturale che favorisce il talento creativo diventerà un posto in cui si resta a girare, con ottime maestranze, ma solo uno splendido fondale”.