Ha camminato su un cavo a oltre cento metri di altezza tra due grattacieli di Milano, all'interno Cupola della Mole Antonelliana, sopra la diga di Ridracoli e sopra il lago del Tempio Sogen-ji a Okayama, in Giappone. Ha percorso 250 metri su un cavo teso tra i colli di Penna e Billi, nel cielo di Pennabilli, e ha affrontato anche un cavo inclinato (26 gradi, a Lodi). Ma ha anche partecipato, con la sua arte, a concerti rock (come quello di Vasco), grandi eventi (come la Cerimonia di chiusura delle Universiadi), opere liriche (la recente "Aida" a Vienna). Insomma, il torinese Andrea Loreni ad oggi è l'unico funambolo italiano specializzato in grandi altezze: vive una vita sul filo, o meglio sul cavo, convivendo con la paura e la solitudine, ma spinto dalla passione. O da un qualcosa che nemmeno lui sa definire: "Perché lo faccio?", riflette, "Non l'ho ancora capito, ma sento che è la 'mia cosa'".
Su di te si legge di tutto: funambolo, filosofo, autore e saggista, esperto di meditazione Zen... Insomma, chi è Andrea Loreni?
Eh, bella domanda. Sono tutte queste cose insieme, ma soprattutto sono una persona alla continua ricerca di sé: è stato proprio questo costante curiosare nella mia identità a portarmi al funambolismo. Fondamentale nel mio percorso è stata senza dubbio la meditazione Zen, ma adesso sto cercando altro: mi concentro molto di più sul respiro. La mia ricerca è continua perché ci trasformiamo costantemente in qualcos'altro, il punto è cercare la parte di noi che rimane sempre identica; il problema è che forse non c'è.
La tua storia inizia a Torino...
Sì, sono nato a Torino nel 1975, ma ho vissuto a Cuorgnè. Lì non c'erano giocolieri, non era quello il mio orizzonte. Ero andato al circo, da piccolo, ma non mi aveva mai affascinato. La scoperta di questa arte è arrivata molti anni dopo. A Torino ho frequentato l'Università, Filosofia Teoretica: non volevo fare il filosofo ma mi incuriosiva la materia. Nel 1997 mi sono laureato con il professor Giuseppe Riconda, un'istituzione a Palazzo Nuovo. Ma la svolta è arrivata nel 2002 con la Scuola Flic e l'arte del circo di strada. E sempre a Torino ho scoperto la meditazione Zen.
Quindi hai un legame speciale con questa città...
Da Torino non sono mai scappato: ci ho vissuto fino a 5 anni fa, poi mi sono spostato a Pecetto, mica tanto lontano... Torino mi piace ma la verità è che il vero legame con la città è quello che ha mia moglie. A me piace molto la collina.
Guardandola dall'alto, hai scoperto qualcosa di Torino che non conoscevi?
Vi stupirò, ma il funambolo guarda in alto e non in basso. Non tanto durante la performance ma soprattutto prima, in fase di preparazione. Ecco, ho scoperto che a Torino ci sono sottotetti molto belli (ride, ndr). Battute a parte, mi ha colpito l'interno della Mole. E ho scoperto in modo nuovo il Castello del Valentino.
C'è un video dove mostri la preparazione di un'esibizione, a Parco Dora. Ci racconti quell'esperienza?
Parco Dora è stato un momento importante, l'inizio di un lavoro di squadra, di insieme. Ovviamente è un bellissimo parco: era gennaio, era freddo; c'era un cavo di 20 metri di lunghezza, fissato a 25 metri di altezza. Lì ho preso coscienza che eravamo una squadra, lì c'è stato uno spazio di crescita comune con tutti i miei collaboratori: è cambiato il rapporto con i tecnici che lavorano con me.
La folgorazione per il funambolismo quando è arrivata?
Come ho detto, non è una passione sviluppata da bambino, ma dopo la Laurea. Ero a Milano ed è lì che per la prima volta ho visto uno spettacolo di strada. Sono stato folgorato, letteralmente: a colpirmi era che l'artista creava una relazione con il pubblico abbassando la distanza sociale. Mi affascinava la disponibilità delle persone a giocare al gioco proposto dal performer, l'empatia che nasceva tra sconosciuti. Ripensandoci, mi incuriosì anche il “cappello”, la richiesta di denaro alla fine: quando ti esibisci in strada è il pubblico a decidere quanto vali, scatta un meccanismo di libertà e responsabilità. Lì ho visto la libertà del performer di proporre quello che vuole, lì ho intravisto un possibile lavoro: il giocoliere, il funambolo.
Cosa si prova quando si è lassù?
In realtà per un funambolo a fare la differenza è la lunghezza del cavo, non la sua altezza: conta insomma quanto dura la passeggiata, anche se il pubblico è più affascinato dal vederci lassù. Non posso però dire che ogni passeggiata sia uguale a un'altra: i contesti cambiano e serve apertura mentale a quello che succede intorno. Io cerco sempre di godermela, di guardare in giro per quanto possibile. Ma la mia concentrazione è sempre sulla passeggiata: ogni passo è importante come gli altri e richiede uguale sforzo e attenzione perché nasconde gli stessi rischi, le stesse insidie. Non è un caso che la maggior parte delle cadute dei funamboli avvenga negli ultimi 10 metri, probabilmente qualcuno si sente arrivato e sicuro prima della fine.
A proposito di cadute, come si scaccia la paura?
La paura è parte di quest'arte, ma a pensarci bene è parte della vita. Io ho paura sempre: relazionarmi al cavo vuol dire proprio avere paura. La paura ti mette sull'attenti, ti fa alzare le difese, ti rende sensibile al contesto. La fatalità, invece, non la possiamo evitare. Diciamo che si cammina nonostante la paura, senza che questa diventi un martirio. La morte è in scena con me, la possibilità di un errore o di una caduta fa parte dello spettacolo, ma anche della vita. Quasi sempre noi funamboli abbiamo un cavo di sicurezza, che però non può garantirci la totale incolumità.
E come ti rapporti con il fallimento?
Ho tentato un record con il cavo inclinato e non sono mai riuscito ad arrivare in fondo: sono caduto tre volte. Dal punto di vista sportivo, cadere è un fallimento, ma da un punto di vista artistico è stata un'esperienza molto bella, resa magica dal rapporto con il pubblico, con cui ero in piena sintonia. Quello che conta davvero è essere stato presente nel percorso fatto. Il fallimento è parte anche lui del cammino.
Come ti concentri? Cosa succede se una volta non hai voglia di esibirti?
"La testa ti distrae, il corpo ti riporta": per questo non è tanto una questione mentale ma più che altro un ascoltare i messaggi che arrivano dal proprio corpo. Io metto in campo strategie per il contenimento della mente: ho delle piccole routine, esercizi di respirazione. Non mi è mai capitato di dire 'non ho voglia'; se non sono partito è stato esclusivamente per problemi esterni tipo il vento. Se sono in difficoltà mi concentro sul pubblico, sulla performance, sulla bellezza e la leggerezza della camminata. Insomma, mi concentro sulle sensazioni piacevoli. Una volta che ti metti sul cavo ti affidi al corpo: quando succederà che mi dirà di no, spero di essere capace di ascoltarlo.
Quanto ti aiuta, in questo, la filosofia Zen?
Se respiri bene acquisisci consapevolezza e gli spazi intorno a te. Per me è fondamentale la consapevolezza del corpo, degli spazi, dell'equilibrio. La filosofia Zen mi ha aiutato a cambiare lo sguardo, regalandomi nuove dinamiche di percezione.
Immagino dunque che serva una certa preparazione fisica
Solo in parte. Io non sono un atleta, sono magro e vegetariano ma potrei benissimo non esserlo. Faccio yoga e tai-chi ma lavoro principalmente sul respiro e, come dicevo, sulla percezione del mio corpo.
La camminata ad alta quota è metafora della vita?
Secondo me è la vita stessa: è un momento in cui gli aspetti della vita più cruciali sono presenti e non rimandati. Ci sono gli elementi della vita...la nostra precarietà: ci devi fare i conti.
Cosa consiglieresti a qualcuno che è incuriosito da questa arte?
Di fare un corso con me! Io ho iniziato a tirare una corda di canapa tra due alberi. Se è la tua "cosa" la fai, se no hai tante scuse per non farla. Il mio consiglio? Intanto, di iniziare...
Per concludere, non ti chiedi mai “Ma chi me lo ha fatto fare?”
Sì certo, ma sento che è la mia strada. Ogni anno penso di smettere, poi cambio idea. Dopo il record fallito mi sono venuti grossi dubbi, mi sono chiesto "Ma perché faccio questa cosa? Perché cerco criticità?". Mia moglie mi ha risposto: "Lo fai perché lo sai fare". Ha ragione. È la mia 'cosa'.