Secondo il ministero della Sanità di Hamas le persone uccise nella Striscia di Gaza dall’inizio della guerra sono state oltre 23 mila, la maggior parte sono donne e bambini. Questo è il bilancio del conflitto istraelo-palestinese che è esploso dopo l’attacco del 7 ottobre da parte dei militanti di Hamas.
Ma che cos’è Hamas e perché ha guadagnato così tanto potere nella società palestinese?
A queste domande cercherà di dare risposta la giornalista e saggista Paola Caridi che alla Fondazione Merz domani presenterà il suo ultimo libro, intitolato appunto Hamas.
“Hamas è nato ufficialmente nel 1987, ma c’è tutto un periodo precedente alla fondazione di 40 anni fa. Nel libro cerco di dividere la sua storia per capitoli. Dalla fondazione, all’uso degli strumenti terroristici, con una data cardine che è quella del 2005”. Quest’ultima rappresenta la svolta partecipazionista, quando Hamas ha sospeso gli attentati e deciso di partecipare alle elezioni che vinse nel 2006, costruendo poi un governo monocolore. “Da lì c’è stata una slavina, si prende il controllo di Gaza, si spacca l’unità e c’è la chiusura totale da parte delle autorità per sedici anni fino al 2023”.
“Quando parliamo di Hamas non stiamo parlando di un movimento politico o di un partito all’interno di una democrazia e di uno stato indipendente ma della politica palestinese all’interno di un territorio occupato dal 1967 in cui insistono diverse autorità. Da Israele e quella nazionale palestinese che ha un ristretto controllo del territorio. La difficoltà è una situazione anormale. Dentro questa prigione a cielo aperto si è sviluppato Hamas”.
Il sanguinoso attacco del 7 ottobre, perché proprio ora?
“Le motivazioni sono sia interne alla casa palestinese sia esterne. Sono tre i fatti principali che hanno spinto all’attacco: la volontà di prendere ostaggi israeliani militari per fare leva sulle le prigioni israeliane, una questione che investe l’intera società palestinese. In quelle carceri, sono passati oltre un milione di palestinesi tra il 1967 ad oggi. Uno dei dossier di cui si parla di meno, ma la popolazione palestinese carceraria è quasi raddoppiata. C’è poi la questione interna alla politica israeliana: la coalizione di Netanyahu ha molto premuto su Gerusalemme e sulla Spianata delle Moschee, che per gli ebrei è il Monte del Tempio. La difesa della Moschea al-Aqsa è fondamentale per tutti i palestinesi. Hamas ha preso lo slogan “Noi difendiamo al-Aqsa”. Sembra impossibile da pensare perché nessuno di loro è più potuto andare a visitare la moschea, ma è un simbolo identitario fortissimo. Questa idea era alla base dell’attacco terroristico. C’è poi da dire che la Striscia è stata marginalizzata negli ultimi 16 anni tanto da non far parte dell’idea di uno stato di Palestina, per gli israeliani e per la comunità internazionale. La volontà era di rompere l’accerchiamento dentro lo stato di Palestina, soprattutto dopo l’intensificazione delle ipotesi di normalizzazione avvenute durante l’estate tra Israele e Arabia Saudita. Il risultato è quello che abbiamo visto tutti: quasi 1200 persone uccise, di cui un terzo militare e due terzi civili, e 240 ostaggi”.
Hanno preso il via da pochi giorni le udienze di fronte alla Corte di giustizia Internazionale, l’accusa per Israele è di genocidio mossa mossa dal Sud Africa. Di fatto cosa comporterà?
“Dal punto di vista dell’immaginario internazionale ha già comportato due elementi fondamentali: il primo è che Israele in un tribunale accusata di genocidio è un risultato direi politico culturale, mentre il secondo è l’assenza dell’occidente. La richiesta è arrivata dal Sud Africa, Paese che ha vissuto l’Apartheid, una delle critiche di cui è accusato Israele. Dal punto di vista politico parla di un Sud globale che decide di fare cose al di fuori degli equilibri ed è anche un confronto con gli Stati Uniti”.
In che modo questo conflitto si intreccia con quelli in Ucraina?
“Da parte del Sud globale c’è stata una domanda fondamentale: perché l’Occidente ha usato il doppio standard con l’Ucraina e il resto dei conflitti, ben prima che scoppiasse il 7 ottobre? Perché l’Occidente ha deciso immediatamente di intervenire sull’invasione russa dell’ucraina, ma non ha fatto nulla quando la Russia ha azzerato le città siriane. Dove era l’Occidente? Una domanda che in realtà era precedente al 7 ottobre, una data che ha detonato la questione del doppio standard in maniera più eclatante”.
I recenti conflitti hanno fatto emergere ancora di più la necessità di una corretta informazione, come si distingue il falso dal vero?
“La prima difesa che dobbiamo usare noi giornalisti è non cadere noi nell’allentare il metodo. L’unica difesa è usare il metodo giornalistico. Perché questo difende la nostra professione. Non abbiamo difeso i giornalisti e il nostro metodo.Non abbiamo fatto niente come giornalisti italiani, abbiamo utilizzato reporter, fotografi, cameraman palestinesi da anni e a loro abbiamo chiesto le immagini delle precedenti operazioni militari su Gaza, ma quando dobbiamo sostenere la loro credibilità, non facciamo nulla. Questo è uno dei danni”.
La presentazione del suo libro si terrà alla Fondazione Merz. L’arte è stata definita un ponte tra le culture, ma dopo quanto successo, quale sarà il suo ruolo?
“Quando ero consulente al Salone del Libro per Anime Arabe era evidente il ruolo dell’arte. È uno strumento potentissimo per fare raccontare e interpretare la realtà in modo diverso, più profondo. Sostengo che il ruolo degli artisti sia molto più importante, alcuni sono stati uccisi in questo conflitto, ma non possiamo ricordarcene ora, dobbiamo ricordare quanto hanno fatto negli anni precedenti. Gli artisti servono a creare un dialogo non alla normalizzazione. Dobbiamo pensare al ruolo degli artisti come pungolo, come critica severa”.
Ha avuto modo di vedere la mostra di Khalil Rabah? Cosa ne pensa?
“È una mostra meravigliosa che dà la parola alla storia palestinese. È bellissima, non solo perché fatta da parte di un palestinese, ma perché mette insieme arte e storia e dà proprio senso di come l’arte vada oltre l’indagine storica, ci dice “Attenzione, qui c’è una criticità”. È così è anche per la mostra in corso alla Fondazione Merz”.