Prima i figli si ribellavano ai genitori, ora regna l'indifferenza: semplicemente, li ignorano. Parola di Marco Paolini. L'attore classe '56 arriva a teatro, al Colosseo, con "Boomers", il suo nuovo spettacolo in scena martedì 15 e mercoledì 16 aprile.
Conflitto tra generazioni, dunque. O forse più un'assenza di conflitto?
"Io parlerei piuttosto di una rottura di codice. Tra generazioni diverse si parlano lingue diverse. Io faccio l'attore e ho sempre fatto teatro di memoria. Adesso mi sono reso conto di non poterlo più fare perché ho capito che la mia memoria ormai è fuori contesto, è vecchia, in poche parole è diventata storia. La mia idea era mettere un sigillo ai miei vecchi lavori, una conclusione del mio percorso ma mi sono accorto di non poterla più fare in continuità, perché non sopportavo l'idea di dovermi rivolgere soltanto ai miei coetanei, di dover tagliar fuori i giovani. E io proprio non sopporto l'idea di rinfacciare a chi è venuto dopo di essersi perso qualcosa. Sapete qual è il punto? Gli spettacoli di memoria li deve fare solo chi ha meno di 25 anni".
Come ne è uscito?
"In questo spettacolo uso uno stratagemma. Parlo di un videogioco per vecchi e in questo modo ripercorro 50-60 anni di storia italiana".
Come può definirci, allora, questo suo nuovo lavoro?
"Si tratta di una ballata teatrale in chiave cybernetica. Un racconto che unisce memoria e tecnologia, dove la storia collettiva di una generazione si trasforma in ambienti da videogioco. Protagonista è Nicola, che torna giovane e si rifugia nel leggendario bar della Jole, luogo simbolico in cui riemergono ricordi, prime esperienze amorose, conflitti politici e frammenti di cinquant'anni di storia italiana, rielaborati da un algoritmo sperimentale".
Che responsabilità storica hanno oggi i boomers?
"Io penso che la responsabilità sia dei singoli, non collettiva. Il processo di Norimberga non si può fare alle generazioni. Non è che i giovani siano diversi dai vecchi come generazione, non esistono mai generazioni di stronzi, nemmeno i vecchi lo sono: non è mica un cambiamento genetico. Pensate forse che la frattura tra generazioni sia tecnologica, legata ai telefonini? Secondo me c'è dell'altro, la rottura è politica. Ed è di questo di cui parlo in questo spettacolo".
Nel suo spettacolo, la musica ha un ruolo centrale
"Sì, la musica ha un peso nella narrazione ma ce l'ha anche nella mia vita. Insieme alla politica, è un elemento che devo respirare: è una delle cose importanti, anche più del teatro per me. Però non so suonare uno strumento: lo devo far fare agli altri. In questa occasione la musica è affidata a un piccolo ensemble diretto da Patrizia Laquidara, tra le voci più intense e raffinate della scena cantautorale contemporanea. A lei ho chiesto di fare l'attrice: darà quindi corpo, oltre che voce, al personaggio di Jole, figura poliedrica e simbolica, che incarna lo spirito e l’anima del luogo dove tutto ha inizio".
A Torino verrà il 15 e 16 aprile. Che pubblico si aspetta?
"Io non sto lì a guardare le persone, ma una cosa che noto sempre, in tutti i teatri, è che il colore della pelle degli spettatori è sempre bianco. Possibile che il teatro sia fatto da bianchi e per i bianchi? Vuol dire che il pubblico dello spettacolo dal vivo non è uno spaccato del paese. Non voglio fare chissà che considerazione, mi limito a notarlo".
Il suo rapporto con Torino, invece?
"Ogni volta che voi torinesi passate su un ponte, in città, potete immaginare di vedere la locomotiva d'Italia, la pianura padana, dall'alto. Buttare una barchetta di carta nel fiume e pensare che, prima di arrivare al mare, attraverserà il distretto industriale più ricco d'Europa. Pensate che tutto questo sia normale e, in cuor vostro, non ve ne importa che la capitale d'Italia sia Roma, pensate ancora che da Piacenza in giù ci sia un altro Po... Battute a parte, ci ho passato 7 anni della mia vita".