Economia e lavoro | 18 marzo 2025, 11:58

Ansia, depressione, isolamento, ma anche impatto sul territorio: la crisi di Lear e TE non colpisce solo i lavoratori

Un studio Cevis sulle crisi a Collegno e Grugliasco. Fiom e industriali: “Il tempo è poco, bisogna intervenire come sistema: basta compartimenti stagni”

Ansia, depressione, isolamento: la crisi di Lear e TE non colpisce solo i lavoratori

Ansia, depressione, isolamento: la crisi di Lear e TE non colpisce solo i lavoratori

Quanto pesa una crisi aziendale su un territorio? Cosa succede quando uno stabilimento chiude? Lo sanno bene le aree di Grugliasco e di Collegno, che in questi anni - tra le altre - stanno soffrendo le difficoltà di due realtà come Lear e Te Connectivity. Entrambe legate a multinazionali, con 380 e 220 posti di lavoro arrivano a coinvolgere 600 persone.

Una ricerca specifica (su 5 aree)

Per dare un confine di numeri, oltre che di parole, a questi fenomeni, il Cevis (finanziato dalla Camera di Commercio di Torino) ha condotto uno studio sull’impatto sociale delle due crisi aziendali e un destino che sembra legato alla chiusura. Lavoratori, insomma, ma anche fornitori, istituzioni e la comunità nel suo complesso.

Sono state cinque, in particolare, le aree di impatto considerate: economico, salute psico-fisica, coesione sociale, fiducia nelle istituzioni e adattabilità al cambiamento.

Povertà e depressione

E i numeri dicono che il 45% dei dipendenti Lear e il 37% di TE appartengono a famiglie monoreddito. Perdere il lavoro vuol dire non avere più una fonte di sostentamento. 

In concreto, il 75% degli operai Lear ha ridotto le capacità di spesa, come i 52% di TE. Il 36% mostra sintomi di ansia e depressione. Il 40% ha ridotto la propria partecipazione alla vita sociale, tendendo a isolarsi. C’è poi un’evidente difficoltà nel ricollocamento per chi ha oltre 50 anni e competenze altamente specializzate.

Il peso colpisce soprattutto i lavoratori Lear sotto tutti i punti di vista, anche per una crisi che nel caso dell’azienda che produce sedili per Maserati  dura da molto più tempo.

Il danno ai fornitori (che non diversificano)

Per quanto riguarda TE connectivity (quelli di Lear non hanno risposto), i fornitori vedono il 22% avere una dipendenza diretta (mono clienti). Ma il 78% ha cercato di diversificare.

Chi rischia, dunque, può veder calare volumi produttivi, occupazione, fino ad arrivare a una chiusura delle pmi.

Impatto sul mercato del lavoro 

Perdere il posto di lavoro in un ambiente già piuttosto fragile ha effetti su tutto il sistema. Le aziende che potrebbero essere interessate, lamentano difficoltà ad assorbire i lavoratori fuoriusciti dalle aziende in crisi. Sia in termini di aiuto e collegamento, sia in termini di competenze (chi è iper specializzato si sente impoverito nella propria attività, pur apprezzando l’occasione di un nuovo impiego).

Le agenzie di outplacement risultano poco coinvolte. Ecco che ricollocarsi, magari spostando la famiglia, diventa complesso e motivo di ulteriore stress.

Per mettere a fuoco le due aziende, il 95% dei dipendenti Lear e l’83% di TE ha ancora tra 6 e 10 anni di lavoro. Ecco perché il reinserimento è una priorità assoluta.

Il 58% dei dipendenti Lear si sente inadeguato alle richieste del mercato del lavoro attuale e solo il 12% ha avviato percorsi di formazione per riqualificarsi. I nuovi impieghi sono talvolta meno qualificati e meno retribuiti.

Istituzioni al palo 

Si riscontra poi una scarsa possibilità di intervento da parte degli enti locali (la Regione non ha risposto): mancano professionalità, ma anche risorse e strumenti di intervento diretto. E la cassa integrazione spesso diventa quasi un rischio più che una risorsa.

Tra gli effetti negativi, per la comunità, anche la perdita di investimenti industriali, la pressione sui servizi sociali locali, ma anche commercio e indotto urbano. Inevitabile pensare che si fanno necessarie le reindustrializzazioni.

Che fare?

Tra le azioni che emergono come più urgenti, in caso di crisi aziendali, c’è una comunicazione trasparente, ma anche un supporto immediato ai lavoratori sia in termini economici che sociali, oltre allo studio delle competenze e alla riqualificazione sulla base delle necessità del territorio.

Sindacati: “Gestire non basta più”

Che si tratti di una situazione complicata, lo dimostrano anche incroci a loro modo storici, visto che a discuterne presso la sede della Fiom di Torino c’erano anche i rappresentanti del mondo aziendale.

Misurare un impatto sociale è utile a tutti gli operatori - dice Federico Bellono, segretario generale Cgil Torino - Anche perché la crisi di un’impresa non riguarda solo l’azienda e i lavoratori. Le conseguenze sono molto più ampie”.

Seppure ridimensionata nel corso degli ultimi anni, il peso della manifattura sul nostro territorio è ancora significativo - spiega Edi Lazzi, segretario generale Fiom Cgil Torino - La zona Ovest la chiamavamo la Stalingrado di Torino, ma ora non è più così e con questo studio lo testimoniamo. Dal 2008 hanno chiuso 500 aziende metalmeccaniche: avevano un nome, un cognome e davano lavoro producendo ricchezza. Dentro lavoravano 35mila persone e sono persone che hanno perso il posto di lavoro. È un numero enorme, come la popolazione di Pinerolo. A oggi ci sono 21mila persone in cassa integrazione soprattutto per la crisi dell’auto”.

Ci siamo limitati a gestire il declino con l’uso degli ammortizzatori sociali e allungando il brodo - prosegue - ma è stata una gestione in arretramento. È difficile, ma dobbiamo pensare a come andare avanti. Abbiamo ragionato e agito forse a compartimenti stagni, mentre serve ragionare con un dialogo trasversale”.

Ripensare la cassa integrazione

Siamo un territorio manifatturiero e spesso viene travolto da dinamiche e decisioni che arrivano da lontano - dice Dario Gallina, presidente della Camera di commercio di Torino - Bisogna fare squadra e trovare un comune sentire e trovare le leve su cui possiamo agire”.

“Abbiamo una filiera di micro e piccole imprese: è su di loro che bisogna lavorare per sviluppare una sensibilità sull’impatto sociale che magari in altre realtà sono già più diffuse”.

Non si spiega però “come sullo stesso territorio ci siano aziende che non trovano addetti e lavoratori che non trovano reimpiego. Forse è questo l’effetto negativo di un uso estremo della cassa integrazione che ha finito per cronicizzare determinate situazioni. Sono strumenti preziosi, ma che devono avere durate temporanee”.

Politiche industriali e multinazionali 

E sulle politiche industriali, “bisogna calibrarle considerando che aziende radicate tendono a rimanere. Mentre le multinazionali non hanno problemi ad andarsene nel momento in cui cessa la commessa per cui si sono insediate”.

Politiche attive per davvero

Capire cosa è successo non basta - dice Marco Gay, presidente dell’Unione Industriali di Torino - e non è solo il fallimento di un’azienda o di un pezzo di componentistica. Ma anche un fallimento di non aver saputo capire cosa stava succedendo, oltre alla poca capacità di gestire i problemi. Non si può impedire a un’azienda di chiudere o spostare. Ci sono dinamiche che però dobbiamo imparare a gestire per capire cosa fare dopo“.

“Sulle politiche attive - prosegue - da anni siamo a parlarne, ma poi in concreto si è fatto poco. Bisogna condividere con il lavoratore e le parti coinvolte, anche sociali, un percorso per non uscire dal mercato del lavoro. Perché il danno sarebbe per tutti. C’è un problema di strumenti, ma anche di visione”.

Massimiliano Sciullo

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Federica Monello

Giornalista pubblicista, ascoltatrice vorace di musica, amante di tutto ciò che è cultura. Nasco e cresco in Sicilia dove da studentessa di Lettere Moderne muovo i primi passi nel giornalismo, dopo poco unisco la scrittura alla passione per la musica. Giungo ai piedi delle Alpi per diventare dottoressa in Comunicazione e Culture dei media e raccontare di storie di musica, versi, suoni e passioni.

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