C'è chi ha osservato Torino per un po' di anni guardandola da lontano, forse con un'iniziale diffidenza, ma poi avvicinandosi poco a poco, fino a innamorarsene e a decidere di non lasciarla più. Anzi, di presentarla nei dettagli a chi veniva a conoscere la sua impresa. Ecco la storia (o almeno una parte) di Carolina Vergnano, amministratore delegato dell'azienda di famiglia e amante non solo del proprio lavoro, ma del caffè come profumo, come aroma, come gusto.
Come è nata la passione per il caffè? E' sempre stata una questione di famiglia?
"Devo ammettere che sono sempre stata molto appassionata dell'azienda di famiglia. E' stato quasi naturale: a casa, quasi tutte le sere di parlava di lavoro con mamma e papà. E non solo delle cose positive: spesso ci si confrontava e si condividevano gli aspetti difficili. Tutti insieme si cercava di arrivare a una soluzione".
Una vera vocazione, insomma?
"Mi ha sempre affascinato la possibilità di lasciare il segno, in quel che facevo. Ho sempre cercato il modo di riuscirci: a scuola, all'università, viaggiando. Ma in azienda ho capito che c'era il modo, con ogni decisione, di poter incidere, di poter avere un impatto. Non solo sull'impresa, ma anche sulle persone che la compongono. E' una grande responsabilità, ma pure una soddisfazione".
Dica la verità: ma il caffè, le piace?
"Sono pazzamente innamorata del profumo del caffè: proprio nei giorni scorsi sono entrata nello stabilimento di pre-produzione. L'aroma mi ha subito raggiunto, in una maniera molto più forte di quel che può arrivare in ufficio. E subito il mio pensiero è tornato a quando mio papà mi portava, il sabato, a vedere la fabbrica. All'epoca la chiamava così. E' un po' come dice Proust: è una sensazione che va al di là della ragione. E tutte le volte che sento questo profumo mi si rinnova l'amore verso il prodotto. E, ammetto, anche verso il nostro marchio".
La sua passione sta passando anche alla prossima generazione?
"Ho tre figli: Giulietta di 17 anni, Giovanni di 16 e Carlo, di 10. Forse il mio entusiasmo è più contagioso in azienda, che in famiglia. Ma questo perché il mio lavoro è un elemento che spesso mi porta fuori e lontano e quindi suscita un po' invidia, come fosse un quarto figlio a cui dedico troppe attenzioni. A volte mi parlano, ma il mio sguardo è altrove che fissa il vuoto: capiscono che in quel momento mi è venuta un'idea nuova e me lo dicono. Si vede, da fuori: ma l'altro giorno è successo un fatto che mi ha fatto capire che qualcosa sta succedendo".
Quale?
"Mi ha chiamato mia figlia, la più grande. Era in Puglia. Mi ha detto: 'mamma, ho visto un'insegna storta. Vieni a dire che la rimettano diritta'. Ho percepito la scintilla, forse sta sbocciando anche in lei la passione".
Che rapporto c'è tra Vergnano e il nostro territorio?
"Fortissimo, ma si spiega meglio con un esempio. Quando sono all'estero (e mi capita spesso), quando racconto la nostra azienda parto sempre dal fatto che si trovi in Piemonte, che abbia qui le sue radici. Ma negli Stati Uniti, così come in Oriente, restano stupiti: mi guardano con curiosità. Qui da noi il legame è forte e parlare di azienda nelle sue radici sorprende, ma al tempo stesso affascina chi mi ascolta. Io vorrei diventare un orgoglio di Torino: vorrei rappresentare un'azienda che, anche senza urlarlo, ma passo dopo passo, ha reso orgogliosi i piemontesi. E aggiungo che affascina gli stranieri anche l'idea di impresa famigliare. Per loro è una faccenda anomala: viene guardata con un certo mistero, ma li attrae".
E invece cos'è, per lei, Torino?
Sono nata a Chieri e ho vissuto a lungo fuori città. A volte tanto fuori, in campagna. A lungo addirittura in una cascina in cui ogni tanto torno. Ma da qualche mese ci siamo spostati a Torino con la mia famiglia. E me ne sono innamorata pazzamente. Mi sveglio presto e cammino per le sue strade totalmente affascinata. Ammetto che all'inizio avevo un approccio da campagna, temevo il traffico e il caos. Invece mi ha subito conquistato. Mi piace tutto. Ma soprattutto mi piace moltissimo il Po: sogno di fare canottaggio, lungo il fiume. Dirò di più: sogno che uno dei miei tre figli un giorno mi proponga di andare a farlo insieme, magari un sabato mattina. Ma mi sa che mi toccherà andarci da sola".
C'è qualcosa che non le piace, invece, della città?
"Mah, forse piccoli dettagli. Perché tutto è migliorabile. Ma mi piace tantissimo il modo in cui sta evolvendo e sta cambiando. Mi piace così tanto che ormai la facciamo conoscere a tutti i nostri partner che vengono a trovarci per vedere la nostra azienda e la nostra famiglia. Applichiamo quasi un vero e proprio format invitandoli a spendere tempo in città, provando il cibo, il vino e visitando i luoghi più belli. E percepiamo quanto questo sia memorabile nel loro ricordo".
Dalla moka alle cialde, sta cambiando il rito del caffè?
"Direi di sì, ma non vuol dire che stia accadendo in peggio. E' solo più variegato: si è mantenuta la gestualità del passato, ma si sono aggiunti gesti nuovi. Il caffè oggi come oggi è a casa, ma anche in ufficio, ma rimane pure al bar, al ristorante e in molti altri luoghi. Si è arricchito, si sono aggiunti dei pezzi. E magari se ne aggiungeranno altri. E' un rito che mostra senza dubbio una grande versatilità e una grande resilienza".
Tornando a Vergnano, come azienda storica: dopo 142 anni come è percepita dai torinesi?
"Non ne ho la certezza, ma mi piacerebbe che fosse percepita come una marca vicina a loro, la rappresentazione di una famiglia, che ha grandi sogni e che cerca di portare questo caffè e un modo di fare impresa in giro per il mondo. Ma anche un marchio che resta una certezza: non ti tradisce perché è buono, rimane il caffè che mi facevano mia mamma e mia nonna e che mi farà mia figlia, un giorno. Una marca che non se la tira, fatta da persone semplici, ma con sogni e ambizioni per il futuro".
In tre parole?
"Vicinanza, calore e orgoglio".