Una prima udienza che, nei fatti, non introduce nessuna novità. Se non calendarizzare i prossimi step di un processo complesso che dovrà far luce a quanto accaduto a Moussa Balde, il 23enne, originario della Guinea, morto suicida nel Cpr di Torino. Qui era arrivato nell’”ospedaletto” del centro, dopo essere stato aggredito da tre persone a Ventimiglia.
Prima udienza: gli indagati
Ora a rispondere saranno Annalisa Spataro, direttrice dell’ex ente gestore Gepsa e Fulvio Pitanti, allora responsabile medico della struttura. Sono stati ammessi tutti i testimoni del Pubblico Ministero, della Difesa e delle parti civili. Per nuovi elementi le parti sono chiamate l’8 settembre, poi altre quattro convocazioni, l’ultima il 20 ottobre.
A deporre tra i primi ci saranno i famigliari di Moussa, oggi presenti a Torino per l’avvio del processo.
Dal tribunale il fratello Thierno e la madre Djenabou hanno poi partecipato a un incontro al Centro Abele, organizzato dalla rete torinese contro i Cpr. Qui hanno portato la storia del fratello e chiesto che la giustizia serva a portare “verità e consapevolezza”.
"Chiediamo solo la verità"
"Siamo tutti essere umani che devono imparare a stare insieme - ha detto il fratello di Moussa, Thierno - In Guinea ci sono persone italiane e di altre parti d'Europa. Perché il contrario non va bene? Chi arriva dalla Guinea arriva con un suo bagaglio culturale, che si può mischiare con quello di altre persone, portando ricchezza. Chiediamo sincerità e trasparenza alla giustizia, che ascolti tutte le parti e che si rendano conto di chi e quanto abbiano mentito”.
"Oggi processiamo i privati - ha commentato l’avvocato della famiglia, Gianluca Vitale - ma credo che questo debba essere soprattutto un processo ai Cpr e alle frontiere. I privati avevano l’obbligo di verificare che non potesse succedere quello che è successo a Moussa, ma dall’altra parte chi doveva controllare loro non ha controllato”, ha detto il legale riferendosi a Questura e Prefettura.
"Responsabilità individuale e istituzionale"
“C’è una responsabilità individuale, c’è una responsabilità istituzionale - ha continuato Vitale - L’obiettivo del processo è anche far venire alla luce anche quest’ultima. Da mesi si riparla della riapertura del Cpr di Torino. Mi auguro che questo non succeda - è l’auspicio dell’avvocato - ma anzi che vengano chiusi tutti questi centri. La verità giudiziaria potrebbe aiutare anche in questo senso".
"La situazione è in peggioramento - ha concluso - La tragedia di Cutro, al posto di portare un miglioramento, ha portato a un peggioramento della situazione, come il caso del centro in Albania. La morte di Moussa ha portato alla luce quelle che sono le condizioni nei Cpr, prima luogo totalmente sconosciuto. Dobbiamo continuare a parlarne, a far conoscere quello che era e non dovranno essere mai più questi centri”.
I famigliari hanno poi portato la storia del fratello. Un giovane ricco di speranze che voleva lasciare il paese per raggiungere l’Italia.
Moussa raccontato dai famigliari
“Aveva deciso di partire per questo viaggio - raccontano oggi i famigliari - voleva raggiungere il fratello in Algeria, dove era rappresentante di spicco della comunità studentesca guinese.”
Qui per diversi mesi ha fatto dei lavoretti, come elettricista, ma non solo. Poi la scelta di affrontare la traversata per il Mediterraneo. L’arrivo al centro di accoglienza di Imperia. Nei primi due anni nessun problema con i responsabili. Voleva imparare l’italiano e rimanere qui. Come testimonia anche un video dove dice di amare l’Italia.
“Voglio stare qui perché è stata una nave italiana a salvarmi”, aveva detto alla famiglia in alcune chiamate. I rapporti poi si incrinano al terzo anno di permanenza. Qui prova ad andare in Francia, ma viene respinto. Si rivolge al centro sociale la Talpa e l’Orologio di Imperia, poi si muove tra Imperia e Ventimiglia ospite di un amico.
Poi un giorno, durante il Ramadan, si perdono le sue tracce. Di quel che si conosce da allora, con l’aggressione e il successivo trasferimento a Torino, resta solo la ricostruzione giudiziaria. La famiglia non ha più saputo nulla. Per disposizioni nell’”ospedaletto” del Cpr non si può chiamare all’esterno. Ogni tentativo di contattarlo è stato vano, solo successivamente sono venuti a sapere che Moussa si era suicidato.
"Non è accoglienza, ma sfruttamento"
A rafforzare la testimonianza oggi anche la sorella di Ousmane Sylla, Marjama, un altro morto suicida all’interno dei Cpr, questa volta a Roma.
“Bisogna che sia chiaro a tutti che questa non è accoglienza - ha poi concluso l’avvocato Vitale - ma sfruttamento dell’esistenza”.