Anno 2024: in corso Brescia 28 a Torino, quartiere Aurora, trova posto un ristorante di cucina giapponese, un “sushi bar”. Anno 1984: sembra impossibile, ma proprio a quell'indirizzo e in quei locali trovava spazio uno dei “templi” della musica live in Italia: il Big Club, poi trasformatosi in discoteca e in molti altri modi. Ed è proprio tra quelle mura che, 40 anni fa, i Diaframma presentavano per la prima volta dal vivo il disco d'esordio “Siberia”.
40 anni di Siberia all'Hiroshima
Giovedì sera, una delle band più “cult” del panorama underground italiano dagli anni '80 ad oggi, tornerà a Torino per celebrare il 40° compleanno del proprio capolavoro, cercando di trasmettere a vecchi leoni e nuove leve del rock tutte le sensazioni di un'epoca di irripetibile fermento artistico per Firenze e non solo. Questa volta, però, l'appuntamento sarà da Hiroshima Mon Amour, più precisamente giovedì 12 dicembre. A pochi giorni dall'attesissimo live, abbiamo intervistato l'anima, frontman e autore dei Diaframma Federico Fiumani, vero e proprio poeta generazionale e personaggio che non lascia certo indifferenti.
Come racconteresti ad un ragazzo di oggi il fermento culturale della Firenze dei primi anni '80?
Per molte cose c'era tanto di più, per altre molto di meno. Sicuramente avevamo meno opzioni ed il clima era più “dilettantesco”: pur essendo più ingenui, però, il nostro pressapochismo era mascherato dall'energia e dall'entusiasmo dei vent'anni, tipici di ogni generazione; il tutto arricchito dall'interazione con la musica che proveniva dall'estero, principalmente dall'Inghilterra ma anche dagli Stati Uniti come il punk e la new wave. I fattori positivi erano comunque tanti: avevamo buoni locali, buone etichette discografiche e buoni negozi di dischi, oltre ad un'attitudine ai rapporti umani stimolata dall'assenza di internet; per suonare dovevi stare continuamente in giro e di conseguenza l'interazione era maggiore.
Cosa resta, oggi, di quel fermento? Segui ancora la Firenze musicale?
Purtroppo non la seguo moltissimo, ma so che esiste una rassegna che si chiama Rockontest che fa da bussola e ogni anno premia qualche gruppo fiorentino di generi musicali molto diversi tra loro. In ogni caso sono fuori da quel giro, non cerco le novità e prediligo la musica dei miei anni e il rock anni '60 e '70. Anche se a Firenze esistono sicuramente ottimi gruppi, che però si allontanano da quelle sonorità, per una questione principalmente generazionale amo le cose che ho amato da giovane.
Nel corso di questi 40 anni hanno tentato più volte di etichettarvi e le parole più ricorrenti sono “punk”, “wave” e “dark”. Cosa significano, per te, queste parole?
Il punk, ma solo quello della spinta creativa del periodo compreso tra il '70 e il '77, rappresenta il mio primo amore musicale, seguito dalla new wave, genere più composito che dal Bowie berlinese ha poi preso mille diramazioni diverse, sopravvivendo tuttora con ottimi gruppi. Di me si dice spesso che sono stato in grado di unire il rock d'autore al punk grazie a testi in italiano intimisti ed un po' malinconici: che dire, io ci ho provato ad abbinare queste cose apparentemente antitetiche, ma dopo sono venuti fuori tantissimi artisti bravissimi.
Sei quindi ottimista sul futuro della musica?
Sulla qualità dei musicisti sono tranquillo, ma a preoccuparmi è lo stato dell'industria musicale italiana e sono molto pessimista sulla possibilità di vivere di musica al giorno d'oggi. Ai miei tempi la dignità artistica e l'identità avevano un valore sacrale, amplificato dal rapporto emotivo, affettivo e anche tattile che si creava con il disco fisico. Adesso è tutto liquido, ti convincono di avere tutto quando in realtà non hai nulla: la musica che arriva alle nostre orecchie è davvero troppa, così tanta da perdere valore. Penso che la musica abbia perso il suo valore nella vita delle persone e questa è la cosa più brutta.
Cosa ne pensi delle piattaforme di streaming?
Il disco, ripeto, ha un valore e una sacralità come prodotto dell'ingegno e come simbolo dell'impegno totale e totalizzante verso la musica. Piattaforme come Spotify, invece, rappresentano l'orribile suicidio dell'industria musicale perché mettono tutti sullo stesso piano, mischiando tutto e non valorizzando i talenti; mi dispiace soprattutto per quelli bravi, che sono tantissimi. Ricordo che il desiderio si esprime soprattutto nella mancanza, se hai tutto e subito il desiderio passa.
In un'epoca in cui tutti sembrano “presi bene”, dov'è possibile trovare la Siberia che raccontavate nell'84?
In realtà, credo che ci sia in giro una grande voglia di fare cose intimiste, un po' come logica reazione a tutti questi anni superficiali, dominati da internet e dai social. Dove trovare una nuova Siberia? Non saprei, ma va cercata: io, avendo una certa età, mi rifugio nel passato e in opere nuove di chi ha un vissuto simile al mio, di chi viene dal mio mondo, di chi ha la mia stessa formazione o ha il mio stesso modo di vedere le cose.
Parliamo di tecnologia: l'intelligenza artificiale applicata alla musica ti spaventa?
Sono abbastanza preoccupato perché adesso non puoi più fare a meno di queste cose: sembra una dittatura, mentre una volta anche se c'era la macchina da scrivere potevi comunque usare la penna. Tutto questo, però, ci permette di guardare al passato e attirare l'attenzione del pubblico festeggiando i 40 anni di Siberia: merito del rock, che per fortuna è morto da tempo ma in modo sufficientemente lento da permetterci di starci dentro.
Torino, con Firenze, a cavallo tra gli anni '80 e '90 è stata una delle capitali della musica underground italiana: che rapporto hai con lei?
Torino è stata una delle prime città ad adottarci, per cui è una delle nostre preferite. Il 26 dicembre del 1984, tra l'altro, al Big Club di corso Brescia facemmo la prima data del Siberia Tour con la bellezza di 1600 spettatori paganti, record assoluto per il locale. Proviamo grande riconoscenza verso Torino e probabilmente ci voleva più bene di Firenze.