Cultura e spettacoli - 23 novembre 2024, 11:55

L'Hospice Anemos di Torino nel delicato e toccante film di Mario Balsamo: "Racconto la morte attraverso la vita"

In Ultimo è in concorso al 42° TFF. Lunedì 25 novembre al Cinema Romano la proiezione con il regista

L'Hospice Anemos di Torino nel delicato e toccante film di Mario Balsamo

In Ultimo è il delicato e toccante racconto delle storie di pazienti e medici all’interno dell’Hospice Anemos di Torino.  

Claudio Ritossa è un palliativista che svolge il suo lavoro con grande empatia per chi è al termine della vita. Un documentario non convenzionale che racconta la morte attraverso la vita, inducendo chi guarda a riflettere sul significato di esistenza.  

Prodotto da La Sarraz Pictures e Muiraquita Filmes, In Ultimo di Mario Balsamo è in concorso nella sezione documentari al 42° Torino Film Festival. 

Perché ha scelto di accendere i riflettori all’interno di una struttura come quella dedicata alle cure palliative? 

“Credo che l'Hospice sia la struttura più interessante per vedere il rapporto che le persone che non hanno più maschere e che stabiliscono questo dialogo con la morte - spiega il regista -. All’inizio volevo fare un documentario sul suicidio assistito perché pensavo che ci fosse lo stesso tipo di dinamica. Lì invece ho capito che ci trovavamo di fronte a malattie che generano uno sfinimento molto difficile da sostenere, eravamo di fronte a persone che affiancano i medici palliativisi che accompagnano i pazienti con un supporto non solo terapeutico, ma anche spirituale, psicologico, con una serie di attività volte ad alleggerire quel momento in cui si fanno i conti con la propria vita. Un momento anche per rivedere i rapporti con le persone care”. 

In che modo? 

“Questa dimensione del fine vita permette alle persone che avevano magari interrotto i rapporti familiari di riaprirli, perché sono dei ponti sospesi che non ha più senso portare avanti. Si ricostruisce quel clima umano che permette una sorta di pacificazione”. 

Come ha scelto l’Hospice di Torino?

“Ne ho girati diversi, quelli che ho visitato sono tutte strutture interessanti, però in questo in particolare ho trovato una dimensione di grande autenticità tra le persone che ci lavorano. Una forza etica nell'affrontare questo confine che tutti i giorni è davanti a loro, è stato un elemento di decisione immediata". 

Quando si sono svolte le riprese?
“Abbiamo girato nell’arco di un paio di anni, una parte anche durante il covid che ovviamente ci ha penalizzato. Abbiamo girato in tre blocchi, per un totale di una ventina di giorni. L’aspetto peggiore è che ogni volta trovavamo situazioni diverse, non abbiamo mai trovato le stesse persone a distanza di un mese”. 

A livello emotivo è stato difficile lavorare all’interno dell’Hospice?
“È stato estremamente emozionante. La direttrice della fotografia ha avuto una pressione emotiva notevole, ma era importante far conoscere questo luogo che spesso viene scambiato per ospizio, mentre in realtà è qualcosa di diverso”.  

Nel film ci si concentra su alcune persone in particolare, come mai questa scelta?

“La scelta è dovuta all’empatia che si è creata tra noi e loro. Per noi era importante che fossero emblematici e che rappresentassero in qualche modo un po’ tutti quelli che varcano la soglia dell’ospite”. 

Quali sono le emozioni che ha sentito di più all’interno della struttura? 

“Quando si entra c'è un sottofondo di paura e arrabbiatura che si stempera nel momento in cui si viene accolti con cura dai medici. Certo è una condizione penosa e difficile da sostenere. C’erano persone che reagivano di più e persone che si rapportavano con gli altri in maniera più pacata, rassegnata. Di sicuro penso che in una struttura come l’Hospice prevalga la reazione positiva, cioè di parlare e condividere. Sono straordinari esempi di come l’uomo anche nelle condizioni brutali della malattia, in un contesto che lo aiuta, tira fuori il suo vero carattere e forse di più”. 

Nel film ci sono sia pazienti, ma anche i medici con la loro vita, perché ha scelto di concentrarsi sulla loro esperienza? 

“È molto difficile svincolarsi dal lavoro che fanno, diciamo che volevo fare qualcosa di non ancora raccontato, attraverso gli occhi della vita. Raccontare come un palliativista si confronta con queste persone, ma ha anche una vita sua. Claudio è una persona saggia, con una grande passione per il giardinaggio. Grazie a questi aspetti ho potuto raccontare il ciclo della vita delle piante come un estremo parallelo con quello che è il ciclo dei morituri”.

Che cos’è che manca ancora nel sistema delle cure palliative?
“Manca un’informazione su che cosa sono e poi ne servono di più. In Italia, la realtà degli Hospice stenta, è obbligatorio implementarla. Ci sono liste lunghe che impediscono alle persone di entrare nell’Hospice. Di contro ci sono molte assistenze domiciliari, certo essere assistiti in casa ha un aspetto positivo, ma per alcune situazioni e patologie non è fattibile”.  

Che cosa le è rimasto di questa esperienza?

“La morte, in questa realtà storica, è assolutamente ignorata e all’improvviso casca a una serie di persone. Questo genera un trauma enorme, che sarebbe stemperato se uno facesse un dialogo con la morte. Per quanto mi riguarda, ho avuto un problema di salute. Prima facevo finta che la morte non esistesse, pensavo che la vita avrebbe fatto un’eccezione per me. Ma lì ho capito quanto è importante tenerla presente, non tanto per arrivare in maniera felice a fine vita, quanto per vivere gli ultimi momenti in maniera più intensa ed essere più autentici con i propri cari. Questo è stato il messaggio fondamentale di questo film”.

Il film sarà proiettato lunedì 25 novembre alle 21.15 al Cinema romano in presenza del regista, con due repliche: mercoledì 27 novembre alle 12 e giovedì 28 novembre alle 16.45.