E poe...sia! - 13 ottobre 2024, 10:26

Singolarmente doppi

Il tema del “doppio” attraversa nella sua interezza l'esperienza umana, dalla letteratura al folklore, dalla moda alla psicologia

Buongiorno, #poetrylovers e ben ritrovati!

Nelle scorse due settimane, in cui lentamente si palesava in me l'argomento di cui scrivere, ho realizzato che difficilmente sarei incappata in soggetti altrettanto intriganti, complessi e viscerali.

Il tema del “doppio, infatti, attraversa nella sua interezza l'esperienza umana, dalla letteratura al folklore, dalla moda alla psicologia; giacché duplicare se stessi e osservare la propria vita da una diversa prospettiva è un sogno ricorrente e perenne, custodito dentro ognuno di noi. E' piuttosto evidente quanto questa tematica abbia assunto, nel corso dei secoli, differenti sfumature e connotati.

Riconoscere in ogni uomo la presenza di una personalità speculare e autonoma, spesso contrapposta o di inclinazioni apparentemente discordanti, ci conforta nella nostra complessità, giustificando la possibilità di essere più di una cosa, percorrere più di una strada, cambiare banalmente idea. Smettere di etichettarsi, riscoprirsi mosaici – infiniti - pone tutti sullo stesso piano: esseri viventi imprevedibili, autentici e in costante divenire.

Ora, andando per gradi, affronteremo l'argomento da due punti di vista: quello letterario e quello psicoanalitico. Siate pronti a qualche sostanziosa riflessione!

Sul piano letterario, il tema del doppio consiste generalmente nel rapporto unico tra protagonista del romanzo e suo doppio, che può identificarsi: con un altro personaggio (come ne “Il compagno segretodi J. Conrad), un’ombra, una voce, un oggetto (basti pensare a “Il ritratto di Dorian Greydi O. Wilde).

Il dipanarsi dell'intera vicenda coincide con il loro conflitto, anche interiore, quasi fossero parte di un’unica realtà ontologica che è stata violentemente scissa. La contesa deve essere risolta senza indugi ma non senza ostacoli, allo scopo di conseguire l'eutimìa (dal greco euthymia [εὐθυμία]), una profonda serenità d'animo data dall'equilibro psico-morale.

In alcuni casi, non solo letterari, si può osservare come il doppio sia uno dei tanti mezzi usati dall’essere umano per abbattere e superare i propri limiti. In genere il personaggio simbolo del doppio è mosso da due diversi e contrapposti istinti: il primo lo incita a cercare di vivere appieno la vita, desiderando e realizzando tutte quelle normali aspirazioni di cui l'esistenza stessa si nutre (amore, conoscenza, esperienza, perdita, crescita); il secondo, invece, gli fa da deterrente, impedendogli di esplorarne alcune. Dunque, pur dimostrandosi uno strumento efficace per vincere sui limiti, esso è contemporaneamente confine e barriera - la più grande - colpevole di soffocare, in un certo senso, l'espressione completa dell'essere.

Che dire del finale di un romanzo dedicato al doppio? Esso dipende dalla conclusione del conflitto appena citato. Ne sono possibili soltanto due. Una sfocia nella tragedia: il protagonista e il suo doppio muoiono senza essersi ricongiunti (è questo l’epilogo ne “Lo strano caso del dottor Jekyll e di mister Hyde); la seconda è la riconciliazione delle parti. Ne “Il visconte dimezzatodi I. Calvino, ad esempio, l’autore intende “combattere tutti i dimezzamenti dell’uomo, auspicare all’uomo totale”. Tra ambientazione realistica e sviluppo fantastico della trama, Calvino riflette sul dimezzamento della personalità come identità più autentica dell’essere. Questa divisione diventa per l’autore allegoria dell’uomo contemporaneo - “mutilato e nemico di se stesso” - sottolineando che tutti ci sentiamo in qualche modo incompleti, scegliendo di realizzare un lato di noi stessi piuttosto che l'altro.
Cosa accadrebbe perciò se, camminando al sole, scoprissimo di aver perso la nostra ombra? Possiamo leggerne le diverse reazioni nelle opere di Hoffmann, Poe, Maupassant e Dostoevskij, per citarne alcuni. Denominatore comune: non si guarda mai alla psiche come a una malattia da guarire, bensì come paesaggio immaginario in cui si proietta un’altra storia rispetto a quella che crediamo di vivere.

Cambiamo adesso chiave di lettura. L’interesse della psicoanalisi per la figura del doppio nasce presto. Apripista il lavoro del filosofo Otto Rank pubblicato nel 1914 con il titolo di “Der Doppelgänger”, che fu poi tradotto con i termini “sosia”, “alter ego”, “compagno immaginario”, impedendo all’espressione tedesca di esprimersi letteralmente, nella sua semplicità: “il doppio che cammina a fianco”. Conclusione? Non si può estirpare il doppio-Io con cui conviviamo se non sopprimendo noi stessi, sebbene in parte. Quasi a ricordarci che la solitudine, quella vera, quella divina, è stata risparmiata agli uomini.

Rank collega il doppio all’emergere delle più profonde angosce distruttive dell’Io, connettendolo direttamente alla morte; nell’improvviso pararsi dinnanzi a noi di un sosia interiore, il rimosso riemerge con violenza, superando gli sbarramenti della logica e l’Io ne è sopraffatto. Chi sono davvero? Chi siamo?

E’ tuttavia importante precisare che il doppio di cui parla Rank non è solo inquietudine e tormento, bensì unione di mondo affettivo e creativo. Secondo questa ottica, in assenza del “doppio che cammina a fianco”, non conosceremmo mai i desideri segreti e repressi dell’anima; “non sapremmo, una volta rifiutate le nostre colpe, a chi addebitarle” (ragione e istintività); non potremmo sentire la voce della coscienza che ci richiama a sé o immaginare chi e come saremo domani, troppo appiattiti sull’oggi, in uno spazio senza sorprese. Così come non potremmo amare, poiché senza doppio non percepiremmo l'esistenza dell'altro - simile eppure diverso da noi; “non avremmo l’angelo custode, il sogno della notte, il ricordo lontano, il volto della morte che ci depriva definitivamente dell’ombra, perché per sempre spegne per noi la luce” (O. Rank: Il doppio. Il significato del sosia nella letteratura e nel folklore (1914), Ed. SugarCo, Milano, 1987).

Un altro famoso quanto discusso psicoanalista, Sigmund Freud, parla del doppio come del “perturbante”. Altra parola che non traduce al meglio l'espressione originale tedesca “unheimlich. Scomponendo il termine, con “heim” che significa casa ed “heimat” che è la patria, si giunge ad “heimlich” (ciò che è familiare). Si deduce perciò che “un-heimlich” stia ad indicare lo sconosciuto, l’in-solito, ciò che riaffiora a nostra insaputa e perciò, dice Freud, “genera angoscia e terrore”. Ma, prosegue il testo freudiano, è anche ciò che costituisce “un’energica smentita del potere della morte”. Certo, noi morremo ma il nostro sosia, che i cristiani chiamano “anima”, sopravvivrà. L’anima ci difende dall’annientamento e costituisce così “la miglior rassicurazione per il nostro narcisismo che trova insopportabile l’annullamento inevitabile dell’Io” (S. Freud, Il perturbante, in Saggi sull’arte, la letteratura e il linguaggio, Ed. Bollati Boringhieri, Torino, 1991).

Nello stesso periodo in cui Freud elaborava il concetto di perturbante, Jung dava forma al concetto di “ombra come parte non accettata della personalità, lato oscuro e negativo di ogni individuo. Eppure, scrive Jung, “incontro con se stessi significa anzitutto incontro con la propria ombra. L’ombra è, in verità, come una gola montana, una porta angusta la cui stretta non è risparmiata a chiunque discenda alla profonda sorgente” (C.G. Jung: Gli archetipi dell’inconscio collettivo, Ed. Boringhieri, Torino, 1974). Ecco che incontrare se stessi significa anche accettare ciò che non vorremmo essere eppure siamo; conoscere mister Hyde e dottor Jekill, il “compagno segreto” di cui parla Conrad, il “sosia” di Dostoevskij, la nostra immagine allo specchio che non ci rassicura mai. Nonostante ciò, è proprio ragionando con noi stessi che permettiamo al doppio di cogliere il punto di vista altrui, le loro intenzioni e le nostre contromosse. Senza di esso, che ne sarebbe del nostro immaginario? Come impareremmo a parlare con il prossimo se un doppio non ci “allenasse” prima all’ininterrotto dialogo tra noi e noi? Che ne sarebbe dell’amore, se è vero che nell’altro cerchiamo la nostra parte nascosta? Come potremmo tollerare il dolore, privati del fitto dialogo che ognuno di noi instaura con il male? Dalla crisi interiore, dall'incrinatura dell'Io e del suo doppio, deriva la vittoria sull'immobilità. Perché dal diritto a scegliere quale identità vestire, ne va della sopravvivenza stessa!

Roba tosta, eh? Che volete, quando la pioggia accompagna la stesura dei miei articoli divento particolarmente meditabonda! Mi farò perdonare.

Rilassiamo le meningi, adesso, godendoci la poesia conclusiva. Dalla penna di Raffaele Carrieri: scrittore, poeta e critico d'arte spentosi a Pietrasanta nel 1984.

L'OFFICINA DEL POETA

Le risme di carta a righe,
l’erba tenera nelle matite.
Le pene, le penne.
Le spalle chine,
la lingua muta, i dizionari
con i confusi vivai.
Gramaglie dell’esperienza:
la pazienza, l’impazienza,
I mulinelli di cenere.
E dietro il muro
mia madre che dorme
più tenue, più tenue
d’una farfalla di vetro.

La notte si guasta all’alba,
l’oscuro diventa
opaco nel calamaio:
calepini di vermi
e vermi nel seminario.
Il presente, il passato.
I dolori in fila indiana
col bavero alzato:
ha fame di me
il più lontano.
Gli inchiostri, la coccoina
i fiumi della Cina.
L’insonnia trascrive Sara
e sbianca la lavagna.

Quando viene il giorno
gli angoli si rompono
e scorgo le distanze
fra anima e mano.
All’orecchio un ronzio:
una voce dice Sempre
un’altra ripete Mai
.

Questo verso, in particolare:

All'orecchio un ronzio

Quante cose bollono in pentola, nella nostra personale “officina” interiore? Troppe per elencarle.

Impariamo ad ascoltare quel “ronzio”, allora, la “voce che dice Sempre” e “ripete Mai”: siamo noi, sinceri e ingarbugliati, in cerca di luce.

Pensateci su.

Alla prossima



Fonte del materiale: Luciano Farmini: linguista, psicologo e psicoterapeuta

Johanna Poetessa