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Copertina | 01 maggio 2024, 00:00

Luca Mercalli: “Torino culla della scienza e della tecnologia, ma se non facciamo qualcosa il suo clima diventerà come quello di Tunisi”

Ricercatore, divulgatore, scrittore e personaggio televisivo: il climatologo e meteorologo ripercorre la propria vita riconoscendo il contributo della città natale, ma avverte sui rischi concreti dei cambiamenti climatici

Luca Mercalli: “Torino culla della scienza e della tecnologia, ma se non facciamo qualcosa il suo clima diventerà come quello di Tunisi”

Luca Mercalli è sicuramente uno dei volti e delle personalità più note e riconoscibili della divulgazione scientifica: climatologo e meteorologo appassionato e mai banale, capace di raggiungere pubblici eterogenei grazie a un linguaggio semplice e un'immagine di sé molto particolare, negli ultimi due decenni ha portato Torino nelle case di milioni italiani grazie alle collaborazioni televisive e giornalistiche come quella con Fabio Fazio a Chetempochefa. Ma, soprattutto, è stato in grado di sensibilizzare la cittadinanza sul cruciale tema dei cambiamenti climatici, a cui ha dedicato la propria vita professionale e non solo.

Nella copertina di Torino Oggi di maggio, abbiamo ripercorso le tappe che lo hanno portato ad appassionarsi al clima e al tempo fin da ragazzino, a dedicare anima e corpo alla ricerca sul campo nelle stanze dell'Osservatorio del Collegio Carlo Alberto di Moncalieri e poi tra i ghiacciai delle montagne piemontesi, ed infine a “conquistare” il piccolo schermo e la carta stampata.

Quando e com'è nato il suo interesse per la climatologia e la meteorologia?

Sono torinese di nascita e culturalmente cittadino, ma essendo cresciuto nella periferia ovest ho sempre avuto la possibilità di ammirare dalla mia finestra il panorama delle Alpi innevate, dal Monviso al Gran Paradiso, restando affascinato da questi luoghi così diversi dal paesaggio urbano. La molla che fece scattare in me l'interesse verso queste due discipline fu proprio questa, accresciuta dalle molte vacanze, sia estive che invernali, passate in montagna con i miei.

Come ha iniziato i suoi studi?

Intorno ai 14 anni, il mio interesse per la scoperta dell'atmosfera si consolidò iniziando a leggere tutto quello che mi capitava sotto mano sull'argomento. Stiamo parlando di fine anni '70 inizio anni '80, quando internet non c'era ancora, ma fortunatamente Torino da questo punto di vista mi ha sempre offerto molte possibilità culturali e le devo molto.

A proposito, come si ricorda la Torino di quegli anni?

Torino è sempre stata una città di contrasti, oltre a essere una delle città più intellettualmente vivaci, più scientifiche e tecnologiche d'Italia: erano gli “anni di piombo”, contraddistinti delle lotte operaie e dal terrorismo, ma fortunatamente anche gli anni delle biblioteche, degli istituti di ricerca e dei musei, figli di quella fortissima eredità positivistica ottocentesca che ha permesso di far nascere qui moltissime tecnologie.

E come l'ha influenzata?

Questo substrato severo e profondo è, senza dubbio, l'eredità più importante che mi ha consegnato Torino: come diceva Primo Levi, la miglior approssimazione alla felicità è probabilmente quella di fare un lavoro che piace, che non costringa a fare qualcosa per forza ma che permetta di essere curioso di scoprire un altro pezzo di mondo. La ricerca scientifica è proprio questo, scoprire come funziona il mondo.

Come ha proseguito “da grande”?

Fu proprio quel clima “ottocentesco” a regalarmi grandi opportunità di ricerca. A metà degli anni '80, grazie ad alcuni docenti dell'Università, mi avvicinai all'Osservatorio di Moncalieri, all'interno del Collegio Carlo Alberto. Creato nel 1859 da Padre Francesco Denza, nume tutelare della meteorologia e fondatore della più antica società italiana sul tema, era stato dimenticato e sostanzialmente abbandonato anche se continuava a “resistere” grazie all'impegno di alcuni religiosi.

Come fu l'approccio con quel mondo?

Da allora iniziai a ristrutturarlo, scoprendo un patrimonio di documenti e libri di eccezionale valore, che mi hanno formato anche in termini morali. Fu come aprire una tomba egizia, che mi diede l'opportunità di entrare in contatto con tutto il mondo della meteorologia dell'800 e del '900. Per recuperare quel tesoro, utilizzai i primi computer per trascrivere e archiviare tutti i dati contenuti nei manoscritti polverosi di Moncalieri, ma anche in quelli di altre stazioni meteorologiche piemontesi; tutto ciò in anni nei quali questo tema non interessava a nessuno. Ora posso dire che Torino mi ha offerto gli stimoli partendo dal suo passato, mentre il mio futuro l'ho poi costruito andando a studiare in Francia.

Com'è cambiato il mondo della meteorologia grazie allo sviluppo delle tecnologie informatiche?

L'informatica ha dato una marcia in più alle scienze dell'atmosfera, permettendo di sviluppare l'analisi statistica con metodi moderni. Oggi, grazie a internet, i dati sono disponibili subito a miliardi di persone, ma è solo grazie a quel patrimonio storico che oggi possiamo conoscere il clima del passato.

Un'eredità che rischiava di andare perduta...

Negli anni '80 guardavo con venerazione alla sede ginevrina dell'Organizzazione Meteorologica Mondiale: oggi il nostro Osservatorio ha da essa ottenuto il prestigioso riconoscimento di “stazione meteorologica centenaria”. Per rendere l'idea, fu proprio Padre Denza a fondare a Moncalieri la Società Meteorologica Italiana, di cui sono ora presidente e di cui mantengo i principi statutari, anche dirigendo la più antica e importante rivista tematica italiana, che ho ripreso a pubblicare nel 1993 ribattezzandola “Nimbus”.

Alla sua attività di studio e ricerca si affianca quindi quella giornalistica: quando e come ha sentito la vocazione della divulgazione?

La ricerca, oltre a raccogliere i dati, cerca di spiegare le dinamiche. A un certo punto, i ghiacciai iniziarono a “parlarmi”: durante i primi anni caldi, più precisamente l'88 e l'89, iniziarono a circolare i primi articoli scientifici sui cambiamenti climatici, che mi permisero di capire come l'arretramento dei ghiacciai fosse dovuto alle attività dell'uomo e non a fatti naturali. Da allora, avvertendo l'esigenza di mettere in guardia la società dai rischi del riscaldamento globale, la mia ricerca iniziò a trasformarsi da neutra in militante.

Com'è proseguita?

Il primo a darmi fiducia fu un altro dei miei maestri: Piero Bianucci, scrittore e giornalista scientifico, che nel 1989 mi diede l'opportunità di collaborare con TuttoScienze . Da allora ho scritto più di 5mila articoli, proseguendo come collaboratore per la redazione torinese di Repubblica e successivamente per la Stampa e per Il Fatto Quotidiano, di cui attualmente sono editorialista fisso. Poco dopo è arrivato il ruolo televisivo, dal 1991 con interventi sui tg regionali della Rai e dal 2003 con Chetempochefa: il programma di Fabio Fazio mi ha lanciato a livello nazionale, ampliando le mie possibilità divulgative, fino ad arrivare alla conduzione del mio programma scientifico “Scala Mercalli”, in prima serata su Rai3 nella stagione 2015-2016.

E per quanto riguarda il lavoro “sul campo”?

Poco più che ventenne, scelsi le Alpi come zona di ricerca scientifica, studiando quel grande laboratorio scientifico a due passi da casa rappresentato dai nostri ghiacciai. Così, appena avevo un attimo, fuggivo da Torino in moto iniziando la mia esplorazione, soprattutto in Valle Orco e sul Gran Paradiso, mio territorio di studio da oltre trent'anni.

Torniamo in città: dal punto di vista climatico, com'è cambiata Torino negli ultimi decenni?

Alla città ho dedicato un monumentale studio durato oltre 20 anni insieme a Gennaro Di Napoli, racchiuso nel volume “Il clima di Torino”, 1000 pagine in cui sono concentrati 3 secoli di storia del clima urbano. In poche parole, '700 e '800 sono stati secoli molto freddi e piovosi, con un tempo praticamente nordico durato fino ai primi anni '80 del '900 che si abbina al mio ricordo di una città grigia e fumosa, mentre oggi fa più caldo, nevica molto meno e rispetto a 50 anni fa la temperatura è diventata come quella di Firenze.

È uno dei segnali più evidenti dei cambiamenti climatici?

Abbiamo toccato i 40 gradi per la prima volta nel 2003 e, da allora, lo facciamo quasi un'estate su due. Sia durante gli anni '70 che gli anni '80 ci furono freddi e nevicate importanti per più inverni consecutivi, mentre oggi nevica meno della metà di quanto facesse in passato. L'aumento del caldo è uno dei segnali più importanti dell'evoluzione climatica: Torino si è allontanata dalle grandi capitali del nord Europa avvicinandosi alle città mediterranee.

Le recenti siccità sono un altro segnale della crisi?

Il 2022 è stato l'anno più asciutto di oltre due secoli, ma le piogge delle ultime settimane ci dimostrano come la siccità sia un fattore decisamente oscillante e variabile con gruppi di anni umidi ed altri più asciutti. Ripeto: il vero segnale dei cambiamenti climatici è dato dalle temperature che aumentano ovunque in modo costante, con inverni sempre più mediterranei ed estati tropicali nel vero senso della parola.

E dal punto di vista dell'inquinamento come siamo messi?

L'inquinamento non è scomparso, ma è cambiato: a fronte di una diminuzione degli inquinanti a base di zolfo, grazie alla dismissione del carbone e della sostituzione dei riscaldamenti a nafta con quelli a gas, registriamo oggi un aumento delle cosiddette polveri sottili e degli ossidi di azoto. Discorso simile per le auto: una volta inquinavano di più perché la benzina aveva il piombo, ma oggi ci sono molti più mezzi in circolazione e la salute continua a risentirne in modo negativo.

Dal suo punto di vista, le politiche attuate a livello locale per contrastare i cambiamenti climatici sono sufficienti?

La questione ambientale in Italia venne posta negli anni '70 grazie anche alle vicende dell'Acna di Cengio, dell'Eternit e del contrasto al nucleare. I progressi, però, non sono stati molti: sono state vinte alcune battaglie a livello locale, certo, ma il tema continua a essere marginale. Nonostante 40 anni di ricerca scientifica e di catastrofi naturali, l'inquinamento viene purtroppo percepito come l'ultimo dei problemi, convinti che prima o poi qualcuno se ne occuperà.

Che idea si è fatto, a proposito, della vicenda Stellantis-Mirafiori?

Aurelio Peccei, un grande torinese nato nel 1908, dirigente Fiat e Olivetti ed economista antifascista, già nel 1972 promosse con il Club di Roma un rapporto di risonanza mondiale sui limiti della crescita. Il suo lavoro fu in grado di tradurre scientificamente un semplice paradigma, che giudica impossibile una crescita illimitata a fronte di un mondo dalle dimensioni limitate; purtroppo non fu capito

Con questo cosa intende dire?

Che se l'economia ignora i vincoli ambientali, facendo profitti mentre saccheggia le risorse naturali, dobbiamo renderci conto che le conseguenze saranno molto gravi e potranno portare al declino dell'umanità. Lo sfasamento temporale tra cause ed effetti lascia via libera a chi vuole sfruttare la terra e fare soldi subito, ad esempio attraverso una cementificazione che distrugge i nostri suoli più pregiati e crea macerie per il futuro.

La politica che ruolo ha in questo?

La politica che punta al consenso a breve termine e non al benessere delle generazioni future ha molte responsabilità. Purtroppo non abbiamo una ricetta magica per risolvere tutto, ma se non vogliamo che a prendere la mazzata vera e propria siano i nostri nipoti dobbiamo almeno considerare il problema, affrontare un dibattito maturo e cercare una soluzione tutti insieme; queste cose non le dice Luca Mercalli, ma erano già note ai miei maestri negli anni '70.

E da Torino cosa possiamo fare?

Anche in questo caso, Torino è sempre stata un importantissimo luogo di formazione di pensiero di avanguardia. Facendo un piccolo indietro, basta pensare al movimento per la decrescita felice italiano, nato proprio qui nei primi anni 2000 ma non capito fino in fondo e purtroppo soffocato anche se di attualità estrema.

Anche i media sono spesso accusati di non fare abbastanza per denunciare i cambiamenti climatici: è d'accordo?

In ambito giornalistico il tema ambientale viene trattato come un impiccio e non come un pilastro su cui fondare una visione del mondo.

Che estate ci aspetta in città dal punto di vista climatico?

È presto per dirlo perché le previsioni a lungo termine non sono affidabili. Quello che conta è il trend, per questo ci aspettiamo un aumento costante delle temperature in linea con la tendenza mondiale. In parole povere, se continuiamo così senza fare nulla tra 10 anni il clima di Torino sarà come quello di Napoli e a fine secolo come il Nord Africa.

Lei dove passerà l'estate?

Quasi 30 anni fa feci una scelta importante: fuggire dalla città, assecondando la mia attività di ricerca in montagna, per trasferirmi in bassa Val Susa, vicino ad Avigliana. Da 7 anni, a causa del progressivo aumento della temperatura, ho deciso di andare ancora più in alto e più precisamente in una baita a 1650 metri nel comune di Oulx. Non a caso, uno dei miei ultimi libri si intitola “Salire in montagna” e spiega le ragioni del prendere quota per sfuggire al riscaldamento globale; non voglio nemmeno pensare di passare l'estate a Torino con più di 40 gradi!

Cosa ne pensa dell'attivismo climatico?

I giovani che si affiancano a noi scienziati e a quella parte di società già sensibile sono i benvenuti nella lotta climatica. Nonostante una pressione sempre crescente, però, la politica non ha cambiato strada ma forse è addirittura regredita. La verità è che l'ambiente resta l'ultimo dei problemi dell'agenda politica italiana: i ragazzi fanno quello che possono facendo sentire la propria voce, ma il mondo non è cambiato e le armi continuano a contare di più dei pannelli solari.

E della repressione verso le azioni più “incisive” nei musei e sui palazzi storici?

Io mi chiedo: è stata danneggiata qualche opera d'arte? La risposta è no, c'erano sempre i vetri protettivi. Si tratta solamente dell'ennesima grande montatura, cavalcata con qualche titolo polemico e sensazionalista, per screditare i giovani. Detto questo, sono consapevole del fatto che questo metodo non goda di molta simpatia e che probabilmente si tratti della strategia sbagliata perché non è stata in grado di creare particolare empatia nella società.

Meisino, Pellerina, corso Belgio...a Torino sono molti i comitati di cittadini nati per “difendere” il territorio dal consumo di suolo, arrivando spesso allo scontro con le istituzioni. Lei da che parte sta?

Ammetto di essere bersagliato dalle richieste dei comitati di tutta Italia, da Trieste a Salerno, facendo spesso da “parafulmine” a un grandissimo disagio. I cittadini soffrono per la mancanza di dialogo a causa di amministrazioni pubbliche che prendono decisioni e fanno progetti senza prima condividerli, innescando il conflitto. Solitamente bisognerebbe discutere dell'idea e poi eventualmente decidere se realizzarla, ma qui c'è l'abitudine di fare i propri interessi nelle segrete stanze del potere, con la gente che percepisce di non avere più alcun potere negoziale.

E sui singoli progetti che opinione si è fatto, visto che per alcuni è stato coinvolto direttamente?

Ogni progetto ha un'identità precisa: quello proposto per il Meisino, pur avendo i suoi punti deboli tra cui quello di apparire troppo impattante, può essere migliorato a condizione che ognuno faccia un passo indietro vista la disponibilità al dialogo tra Comune e cittadini. Sono molto più critico, invece, sull'operazione del nuovo ospedale alla Pellerina: perché consumare suolo quando c'è un'area industriale abbandonata come quella dell'ex ThyssenKrupp? Invece di fare un nuovo parco da zero e cementificare un pezzo di Pellerina, non sarebbe meglio costruirlo su una zona già edificata? Così facendo, ci sarà l'ennesimo sacrificio di suolo.

Marco Berton

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